
Dolci alle mandorle حلويات اللوز


Nell’inverno del sessantasette, all’età di sedici anni, mi capitò un guaio: giocando a pallone mi si era spezzata l’unghia dell’alluce sinistro, e pochi giorni dopo avevo una “Unghia incarnita” con i fiocchi.
Doloroso, infiammato e gonfio com’era diventato il mio “ditone”, il medico chirurgo che mi visitò fu categorico: «Occorre operare, togliere la radice, altrimenti si rischia di perdere il dito». E così fece.
Una volta compiuto l’intervento, tornai a casa dall’ospedale a bordo della moto di mio fratello Mario.
Lui guidava in giro per Milano, e io con il mio piedone fasciato all’inverosimile che sporgeva dalla sagoma della moto parevamo i protagonisti di un film comico; ma posso assicurare che non avevo alcuna voglia di ridere.
Parimenti poco allegro era mio padre, che tempo prima aveva prenotato e pagato in anticipo un viaggio in comitiva in Terra Santa, per lui e per me.
Come avrei fatto a imbarcarmi in un viaggio, che oltretutto avrebbe toccato diverse tappe, se dovevo stare giorno e notte con il mio piedone per aria?
«Immobile devi stare!» mi aveva detto il medico.
Infatti, appena accennavo ad abbassarlo sentivo dolore e poco dopo vedevo il sangue arrossare il fagottone di garze e cotone della medicazione.
E mancavano solo pochi dì alla partenza.
Il giorno prima dell’inizio del viaggio tornai in ospedale, dove mi fecero una fasciatura più leggera, e m’istruirono su come trattare la ferita con le apposite garze medicali. Mi dissero di provare a partire lo stesso: male che fosse andata, sarei rimasto fermo in hotel.
Invece andò benissimo.
Sarà stato il suolo di quella terra “Santa”, ma con cautela, e stringendo i denti, riuscii ad appoggiare a terra il piede e camminare fin dal primo giorno.
In albergo a Gerusalemme trovai un medico palestinese, bravissimo, che provvide tutte le sere a cambiarmi la medicazione. «Very well», diceva ogni volta sorridendo e guardando la ferita.
Il secondo giorno provai a mettermi i sandali che mi ero, a ragion veduta, portato da casa; e senza troppo stringere i cinghioli, alla fine si rivelarono una scelta azzeccata.
E più camminavo per le strade di Betlemme, Nazareth, Cafarnao e Tel Aviv, più il mio ditone si sgonfiava e cessava di dolere.
Mio papà ne fu contento: potevamo spostarci per le visite senza difficoltà.
Mio padre era pugliese, piccolo di statura, e con un carattere impulsivo e acceso pronto a divampare all’istante quando notava qualcosa che gli andava di traverso.
Ne ebbi un buon esempio a Nablus, dove fermato il pullman per una sosta, il nostro gruppo fu circondato da un nugolo di piccoli palestinesi scalzi e parecchio malvestiti che vociavano: «Bakshish, bakshish», “la mancia”.
Le due guide dell’agenzia turistica israeliana che avevano in carico il tour reagirono in malo modo, cacciandoli via letteralmente a calci.
Mio padre subito prese a inveire contro gli accompagnatori.
Uno spettacolo vedere il mio genitore, uno scricciolo d’uomo alto una mela e mezzo frapporsi tra loro e i piccoli, e prendere a male parole quei due bestioni alti e grossi fermati e zittiti da quel piccolo italiano infuriato. Dopo le parole, mio padre passò ai fatti: cacciate le mani in tasca e raccolte parecchie monete, regalò a quei bambini quanto poteva, seguito a ruota dagli altri della comitiva.
Il mio sospetto era che le nostre guide non fossero due civili, ma poliziotti in borghese o agenti dei “Servizi”; e la cosa poteva avere un senso dato che la: “Guerra dei sei giorni”, combattuta tra Israele da una parte, ed Egitto Siria e Giordania dall’altra, era terminata solo da qualche mese, e l’odio tra gli appartenenti allo stato ebraico e il mondo arabo era tangibile, come lo è purtroppo tuttora. Era frequente poi, durante le nostre escursioni, vedere mezzi blindati e carri armati bruciati e malridotti lungo le strade fuori e dentro le città arabe, così come evidenti erano i segni dei bombardamenti delle case, o quel poco che ne era rimasto, dei palestinesi.
Per quel motivo le visite guidate avvenivano solo di giorno.
La sera ci portavano in albergo a Gerusalemme, e lì venivamo lasciati con la raccomandazione di non uscire: le strade, in particolare nella parte est della città, vale a dire la parte araba, per noi era off-limits.
Mio padre, insofferente come sempre alle regole, e coerente con se stesso, una sera volle fare quattro passi proprio in quei luoghi.
Uscimmo dall’albergo così, da soli, dopo cena, e camminammo per quelle vie malsicure fino a quando, attraversando un vicolo, ci trovammo di fronte due palestinesi che, come corporatura, nulla avevano da invidiare alle nostre guide ebraiche.
Si misero di fronte a noi sbarrandoci il passo.
Nei loro occhi c’era solo odio; poi dissero qualcosa che non afferrammo, ma che aveva tutta l’aria di essere una minaccia.
Mio padre a questo punto farfugliò timidamente solo un paio di parole che, tuttavia, con tutta probabilità ci tirarono fuori da una situazione spiacevole: «Siamo italiani».
«Italiani?» rispose l’arabo cambiando subito espressione. E colto di sorpresa proseguì: «Italiani, ebrei?»
«Siamo italiani e cristiani. Turisti».
I due palestinesi, a quelle parole, sorrisero e divennero cordialissimi.
Ci trascinarono letteralmente a casa loro, e dopo averci fatto accomodare su due grandi cuscini bassi che fungevano da poltrone, passarono alle presentazioni di mogli e figli, e misero a nostra disposizione un vassoio stracolmo di cibarie, dolci e varie bevande.
Tappeti colorati, tanti bambini, donne, forte odore di spezie e musica. Li ricordo ancora, dopo tanti anni.
Mio padre ed io avevamo cenato poco prima, ma non potevamo certo offenderli rifiutando quanto offerto: quegli uomini e le loro famiglie non sapevano che fare pur di dimostrare ospitalità e amicizia.
In seguito, a tarda notte, quando videro che crollavamo dal sonno, e che di ingerire cibo e bevande non ne potevamo davvero più, ci accompagnarono sulla strada che conduceva all’albergo e, una volta salutati con calore, mi ritrovai fra le mani un pacchetto di squisiti dolci alle mandorle, miele e pistacchio.