
Donna sulle scale

Bernhard Schlink, “Donna sulle scale”, Neri Pozza, 2021, 205 p., Euro 18,00
“Se ami uno scrittore (intendo ovviamente le sue opere) non cercare di conoscere l’uomo – mi aveva detto parecchi anni fa un amico scrittore – potresti restarne molto delusa”.
Ho letto le biografie di Hamsun, di Céline, di Simenon, ho avuto modo di conoscere il pessimo carattere e gli scherzi feroci di Dürrenmatt e l’assoluta slealtà di Max Frisch, della cui ex-moglie sono tuttora amica, e ho recepito il messaggio. Ma per Bernhard Schlink, dopo molti incontri, lunghe chiacchierate e interviste sulla maggior parte dei suoi libri, oso ipotizzare che non sia così: mi pare che persona e scrittore procedano in perfetta sintonia su strade parallele. Il rigore morale, il profondo senso della giustizia, il peso della memoria per un “passato che non passa”, la voglia di scandagliare a fondo ogni emozione che la vita dispensa e allo stesso tempo quel suo modo di non prendersi troppo sul serio sono insiti nella persona, già giudice presso la Corte Costituzionale della Renania e poi docente di filosofia del diritto alla prestigiosa Humboldt Universität di Berlino, come lo è nei suoi personaggi. O forse è proprio questa l’abilità dello scrittore, che in un’intervista mi disse: ”Io scrivo solo di ciò che conosco”?
La straordinaria abilità di fare dei suoi “personaggi” delle “persone”, che si possono muovere attraverso avventure al limite del credibile e che pure, anche grazie ad una scrittura scorrevole e cristallina, ci sembra di conoscere da sempre. E così qui, in questa storia che si dipana fra il giallo, la passione e il tradimento, l’illusione e la disillusione, ma soprattutto la presa di coscienza di quanto una vita possa essere vuota senza scopi davvero validi e quanto incomba la caducità del tempo, dove inizia la finzione e termina la realtà o viceversa?
Schlink stesso ci dice che la figura della “Donna sulle scale” le è stata suggerita da un quadro di Gerhard Richter, “Ema, Nudo su una scala”, ma tutto il resto è finzione. D’altronde i quattro personaggi attorno a cui ruota la storia appartengono a una generazione che l’autore conosce bene perché ne fa parte: gli anni Sessanta, le cui vite e sofferenze sono ancora materia che, abbastanza ma non troppo lontana nel tempo, si possono “impastare” letterariamente con la realtà e formano una costellazione ch’egli stesso ha più volte evocato in racconti e romanzi di grande impatto emotivo (vedi “Olga”, “Fughe d’amore”, o “Il fine settimana” e “A voce alta”, da cui sono stati tratti film di successo).
Dicevamo “le quattro figure”: il ricco imprenditore marito di Irene, che ha commissionato il quadro, il pittore, amante di Irene, che l’ha dipinto, l’avvocato, che è poi l’io- narrante dell’intera vicenda, che se ne è innamorato e che, unico vero amore, le resterà accanto fino alla morte. Ma la figura di maggior rilievo è sicuramente l’ineffabile e inafferrabile Irene, che dà scacco a tutti e tre perché non vuol essere “trofeo o musa” di nessuno; la donna del dipinto, che scende le scale “nuda, pallida, bionda” e “si muove incontro allo spettatore, con leggerezza e come sospesa nell’aria” è la donna che fugge nella DDR, che milita nella Raf, che sogna un mondo migliore, che soprattutto aspira alla vera libertà: “libera dagli eccessi ideologici, dai rituali vacui, dagli sforzi che non portavano a niente”.
La donna che i tre uomini ritroveranno, assieme al dipinto divenuto una preziosissima tela esposta in un famoso museo di Sydney, dopo 40 anni: la donna che porterà il lettore, assieme all’io narrante, ad interrogarsi sui veri valori della vita.