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Latteria del cuore

Latteria del cuore

Racconto milanese

Col suo passo trotterellante ma determinato, l’andatura che lo fa oscillare un po’ a destra e un po’ a sinistra, guardingo attraversa la strada e dietro gli ampi occhiali, lo sguardo punta dritto verso un punto preciso, l’irrinunciabile luogo d’incontro e di ritrovo, luogo che sa di cose certe e garantite, che pullula di volti noti e familiari, luogo da cui generosità e calore si sprigionano a partire dal primo mattino. Punta dritto verso la soglia, fa leva sul freddo appoggio dell’intelaiatura di alluminio dorato, eppure dentro non c’è metallo, non ci sono oggetti neutri e freddi, ma calde tazze e fumanti tazzine, un rassicurante rumoreggiare di piatti e cucchiaini, il profumo gradevole di un caffè o di un cappuccino preparato con amore. Prima ancora che si possa avvicinare al banco, gli viene incontro un inseparabile amico: viso rubizzo, gamba un po’ tesa, incedere cadenzato di mocassini che risuonano sul pavimento di graniglia. Avanza tutto chiuso nel suo giubbotto blu per formulare la solita inusuale richiesta: un vasetto di yogurt ai frutti di bosco e … una birra! Una vera sfida alle leggi della più astrusa combinazione alimentare.

Con fare circospetto fa il suo ingresso un avventore abituale, gli occhi ancora assonnati (o forse sono così per natura?), i capelli scomposti, grigi, forti, ritti sulla testa, indocili e ribelli, restii a prendere una qualsivoglia direzione. Segni particolari: il calicino mezzo pieno abbandonato sul marmo del banco. Quali straordinari impegni lo chiameranno… Con lui si inaugura il concitato andirivieni tra soglia e retro, dove il potente richiamo delle “macchinette” ha già catturato qualche altro avventore, che, con i suoi due cagnolini appresso, non sa staccarsi dal videogame, rapito da una virtuale avventura in chissà quale altra dimensione.

Già, il retro: il salotto oscuro che si illumina a comando. Entrano in ordinata schiera le signore, amiche e colleghe affezionate al loro tavolino: un caffè, rituale inizio di una giornata nuova e piena, due chiacchiere, una battuta, un breve scambio di opinioni, un pronostico sulla giocata al lotto o sulla squadra che vincerà… Ma, a proposito di calcio e di partite, o, per meglio dire di INTER, come potremmo non menzionare la signora bionda con gli occhiali, l’inguaribile tifosa della squadra del cuore, l’impeccabile conoscitrice di formazioni e tattiche di gioco, sempre pronta a mettere in discussione e criticare le decisioni arbitrali. Le raggiunge un’altra figura, alta affabile e sorridente, portafoglio alla mano, sempre un po’ presa, tutta impegnata nel dar retta alla figlia, grande e insieme piccola docile presenza di ogni mattino, ingenua e gentile nel suo informarsi su chi conosce e soprattutto su chi è in difficoltà.

Garbate e frettolose le donne si congedano. Ordinatamente escono in fila indiana, talora intralciate dal nerboruto fornitore delle acque che con destrezza si fa strada tra i cartoni ammonticchiati e la imponente pila di generi di conforto, affastellati in un inusitato castello di carte e cartoncini colorati, prodigio della statica ancora tutto da studiare. Accorta lo evita un’altra persona discreta, occhi verdi e folti capelli neri raccolti da un fermaglio, che rapida sorbisce il suo caffè al banco, a differenza di chi, esile e minuta, non può rinunciare a una seppur breve sosta, forte della inveterata convinzione che chi beve il caffè in piedi non si arricchisce… chissà!

Ed ecco che, come per incanto, il retro si popola di singolari presenze, diventa luogo di malcelate insoddisfazioni, di discorsi che si protraggono all’infinito, scanditi da gesti meccanici, antro dove si riversano ansie attutite dal rassicurante ritrovarsi, dal quotidiano ripetersi di rituali noti.

Ognuno ha alle spalle una storia da dimenticare…

Il volto di una madre da cui troppo presto ci si è staccati, squarcio indelebile in una giovane esistenza da cui ancora non si è usciti, ma che sembra ormai alle spalle, sfuocata come il viso che ne era l’emblema; un padre che forse non si è mai conosciuto o che ha innalzato a poco a poco un muro di indifferenza, talmente solido da reggere a qualsiasi scossone, a qualsiasi urto che la vita inaspettatamente sferra. Storie di solitudini e di incomprensioni radicate nel cuore di anni lontani.

Storie, volti e scenari da dimenticare, come il paese delle proprie origini, un paese che ormai è solo una sbiadita cartolina dagli angoli consunti, con poche note distintive, macchie che il tempo ha lasciato come segno del suo scorrere: è il paese delle proprie radici, che qui, invano, in questi pochi metri quadrati si cerca di ricreare.

Il locale è un piccolo microcosmo, un luogo in cui amori e ricordi ruotano vorticosamente, inafferrabili e rarefatti, labili e inconsistenti come l’aria. Mobili umori si alternano, voci dissonanti si sovrappongono. “Qui delle divertite passioni per miracolo tace la guerra – scrive Montale – qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza…”

Proprio vero: condividere qui dentro qualche sensazione per un attimo ti dà sollievo; scambiare due parole non ti fa sentire solo, bensì accolto da chi solo sa creare un’atmosfera così calda e familiare: Enrico. Chi altro nel rione potrebbe, con così aperta e generosa spontaneità, farti sentire ogni volta cliente unico e speciale?

Baffi e cappellino, seduto al tavolo con le due brioche salate e il latte macchiato c’è una persona gradevole e familiare, sguardo vivido delle pupille azzurre dietro gli occhiali – mannaggia alla stanghetta che anche stavolta ti ha tradito – due luci vive che escono dal buio di una notte di guardia, dall’ombra di un giro obbligato attorno all’edificio, il passo cupo e ritmato di chi scandisce le sue ore sulle lancette impietose di un orologio che inspiegabilmente va troppo lento. L’eco di un rumore improvviso, di un guaito, di un improbabile fruscio ti solleva dal torpore e ti fa giungere inconsapevole fino al primo mattino. Ma ecco che si profila la meta agognata, premio di una notte insonne, calore che ti entra nelle ossa, briciole di allegrezza che a poco a poco si compongono nel quotidiano mosaico dell’esistenza, scenario ribaltato, dove notte è giorno, e la luce sonno forzato, imposto a chi sente in sordina gli altri vivere. Due chiacchiere per sgranchire la mente e poi farla ricadere in un oblio di breve durata, in un temporaneo letargo. Al risveglio ti basta un grappolo di idee e un po’ di fantasia per mettere assieme il pranzo, meritato premio di chi si sente vivere attraverso porzioni di energia riconquistata.

Accanto a lui, avvolta nella sua ampia sciarpa color prugna, la prof. Sempre di corsa e sempre infreddolita, si raggomitola nel piumino, pronta a montare in bicicletta e …a volare verso la scuola, non prima però di aver assaporato la sua porzione di quotidiano benessere: una brioche ai cereali e miele – benefico pretesto, modesto palliativo per la tosse sempre incipiente – e un fumante cappuccino. Un rapido scambio di opinioni con Enrico, un’occhiata al giornale e via, è giunto il momento di avviarsi. Del resto, prima o poi il “tavolino d’onore” deve essere liberato per cedere il posto a lei, lei che vive per il suo cagnolino, vivace, scuro e bassottello, musetto simpatico e zampette sempre pronte a farti festa, soprattutto se ti stai gustando una fragrante brioche! Un colpetto di tosse a stento soffocato, l’appagante aroma di un caffè fatto durare il tempo di un labile ricordo richiamato alla memoria.

Un piccolo involto, due cartocci riposti con lentezza nel sacchetto di tela, quattro notizie strappate alla pila dei quotidiani che campeggia sopra la piramide di bottiglie: volti atterriti in primo piano, disastri e funesti presagi; meglio passare oltre, meglio non sapere, chiudere il giornale e farsi cullare dal profumo di sambuca che lieve si diffonde.

E c’è chi non rinuncia alla sua dose di dolcezza quotidiana: tacita e furtiva fa incetta di cioccolato e cioccolatini, biscotti e merendine, leccornie e sorpresine; con estrema cura le dispone nello zainetto e talora, forse per sottrarsi a eventuali incursioni di colleghi altrettanto golosi, le occulta nelle pieghe dell’abbondante soprabito o addirittura dell’ombrello! Con meticolosa attenzione liscia la sua azzurra banconota e, soddisfatta dell’operazione, la consegna ad Enrico, accorto consigliere e discreto custode dei suoi …dolci segreti. Alla sua lentezza e ai suoi gesti misurati fa da contraltare la scattante verve di un’altra figura.

La mattinata, infatti, non ha il consueto sapore se non fa la sua rapida, per non dire fulminea apparizione un personaggio che sembra tratto da un libro d’altri tempi, di una cortesia e di un garbo che paiono oggi ormai dimenticati. Con brillante intuito e sapiente eloquio, dispensa le sue succinte considerazioni, elargisce massime e pronostici a breve e lungo termine, sicuro di non essere smentito. Un caffè, un saluto, un inchino e via!

Lui esce o, meglio, scompare veloce come una scheggia – ti volti e già non lo vedi più – e al suo posto entra, seguito da almeno una delle sue figlie intenta a scegliersi uno snack da infilare nello zaino, un uomo alto, dai tratti tipicamente mediterranei: capelli neri sempre molto corti, appena spruzzati di bianco sulle tempie, occhi e carnagione scura, occhiali neri, passo dinoccolato che ben si accorda alla sua scarpa sportiva, anch’essa ovviamente nera. Lo diresti di un paese distante, invece la sua storia si radica proprio qui, tra queste mura e la sua sonora parlata lo attesta.

Sì, nella latteria del cuore puoi udire parlate diverse, eco di paesi da cui ci si allontana per trovare anche solo un temporaneo lavoro; parole, voci e timbri si sovrappongono, ma c’è qualche nota inconfondibile, traccia effimera di un idioma dimenticato: “Se gh’è chichinscì? S’in dre a fà? T’el disi mì…” L’opinione sui lavori in corso piuttosto che sull’improbabile e inopportuno deposito di immondizia abbandonata sul marciapiede ha tutto un altro sapore se espressa in quella lingua colorita ormai in via di estinzione, che ti riporta nel cuore della vecchia Milano dei tempi andati. “Ma debon? Va’ a dà via i ciapp! L’è propri véra che gh’in pù i òmen d’una volta!” Solo lei con la sua voce argentina sa inquadrare con pochi tratti incisivi una situazione, solo lei, capelli corti grigi che le incorniciano un volto aperto e schietto, sa mettere a fuoco con un motto o un proverbio un episodio, un volto, un comportamento e, come per magia, farcelo comparire davanti agli occhi: “Va’ là, facia de tòla! … sgurbàt! … tirapé!”

Ma in fatto di conoscenza del dialetto è una bella lotta battere lui, rubizzo, piglio franco e deciso, pronto ad apostrofare tutti senza mezzi termini, lui che, dopo aver inaugurato la giornata con un bel grappino, un marsalino o un cedro, gira tutto il giorno sul suo taxi, e si diverte ad esibire termini milanesi che ormai pochi della vecchia guardia sanno decifrare: bondaieula, ciffon, magioster e…chi più ne ha, più ne metta!

Qualcuno nel frattempo lascia la stanzetta attigua che dà sul cortile, tiepido riparo ai propri gelidi pensieri, e si dirige verso il banco. Non conta l’ora, il quando e il dove: è lì, con il suo immancabile strato di schiuma, il potente richiamo esercitato dal bicchiere, pronto a rinnovarsi ritmicamente, ripetutamente, ossessivamente nell’arco della giornata. Ed è solo l’inizio: le ore grevi devono ancora arrivare. Allora dalla luce fioca dell’antro si esce così, spogli ed esposti al chiarore di una mattinata divenuta impietosa, dove troppo nitidi sfrecciano colori, volti e immagini, frammenti di una cruda realtà.

Il tempo scorre, le ore scivolano via rapide col variegato avvicendarsi di folcloristici personaggi. È ormai l’ora dei bianchini, normali o spruzzati che siano, delle sfizierie e degli stuzzichini che li accompagnano. E’ l’ora in cui potresti incontrare un viso aperto e gioviale, testa rasata e occhiali da vista che si notano appena, birra in settimana, prosecchino il sabato.

E’ la volta del distinto signore, capelli grigi con scriminatura di lato, ovvero con la scheja come quand serom fiolett, camicia e cravatta sempre in ordine, giacca color cammello, che, appoggiato con classe al banco, elargisce il suo buon senso lombardo, erede di una tradizione di schiettezza, praticità e saggezza popolare. Grazie a lui, tra i calici che nel frattempo si moltiplicano sul banco, scorrono come in un vecchio film immagini di un passato non troppo lontano: gustosi aneddoti che spiegano espressioni tipiche o proverbiali – ben pochi, infatti, sanno da dove deriva “andà a fiaa d’òca” piuttosto che “mangià A U F A” – episodi di un’adolescenza ancora viva nella memoria, sullo sfondo di una Milano del dopoguerra fatta di rapporti autentici, dove le occasioni di incontro e di svago erano un dono prezioso e per nulla scontato, dove si sognava di vivere e si viveva per sognare…

La ridda dei panini, dei toast e delle più disparate bevande è iniziata: accontentare tutti senza perdere la calma e il buon umore è un dono di Erri; per questo i pochi metri quadri calpestabili – è il caso di dirlo! – del locale sembrano miracolosamente ampliarsi per accogliere gli habitué della pausa pranzo e dare spazio al tanto agognato break. Di lì a poco seguirà la “pioggia” dei caffè, serviti con accortezza anche a chi si trova …in seconda fila o nelle retrovie.

A poco a poco la gente si dirada. Lo sguardo cade allora sulla vetrina, ingombra di oggettini capaci di soddisfare le più disparate esigenze o di accontentare i bambini più curiosi, finestra aperta sulla via, strategico punto di osservazione dei movimenti del quartiere. La vista si confonde, ma l’occhio vigile è attratto da un roteare di colori, fiocchi e campanelli che vorticosamente fanno il loro ingresso sonoro, ciclico reiterarsi di vane speranze che si inseguono: il tintinnare di una manciata di monetine finalmente strappa un sorriso a lei, che raccoglie il prezioso bottino quasi fosse in tesoro, segno augurale di una giornata che si profila serena, o quasi.

Due sagome lente si avvicinano: lei, sguardo un po’ triste, ferito, volto chino verso terra, capelli neri raccolti in una docile coda, mani nervosamente infilate nelle tasche; lui, immancabile sigaretta con intorno un’esile figura, diafana e un po’ vacillante, troppo leggera per restare saldamente attaccata a terra: vano inganno le grandi scarpe sportive che a fatica riescono ad ancorare al suolo il peso inconsistente.

Un incontro imprevisto attira e sorprende per qualche istante lo sguardo abbacinato: un saluto affrettato sulla soglia, una stretta di mano, il palmo ancora proteso e il gesto lento di chi è seduto fuori sul vaso di pietra che a tratti esala l’odore intenso dei fondi di caffè, oro per la terra arida di città. Ma l’altro è già oltre il marciapiede e con passo rapido si prepara a diventare lontananza, piccola sagoma, puntino indistinto nella luce bianca del primo pomeriggio. Puntino, corpuscolo, particella, atomo fatto di nulla è allora anche la piccola brace che istintivamente si accende, quasi ad emulare l’altro punto ormai indistinguibile al fondo della via che, lunga e rettilinea, segna e divide la contea.

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Gisella Colombo

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