
Non sono solo canzonette. Ep. 2

Viaggio intorno alla canzone pop
Episodio 2: Audioscuola
Secondo episodio della rubrica musicale a cura di Maurizio Bonino sulla lirica e le forme della canzone pop.
Abbiamo iniziato il nostro viaggio intorno alla canzone pop sottolineando l’importanza di non confondere il testo di canzone con quello poetico.
D’altra parte, quando un poeta scrive, ha davanti a sé un foglio bianco (o lo schermo bianco del computer): non ha limiti. Addirittura in alcuni casi (pensiamo ad esempio al futurismo) alcuni autori si sono spinti a giocare con le lunghezze dei loro versi per creare delle immagini con i loro testi scritti: veri e propri disegni composti da parole. Questo non vale assolutamente per l’autore del testo di canzone che, come abbiamo visto nell’episodio precedente, sa che quello che scrive, a un certo punto, deve fondersi e svilupparsi con la base musicale. E non è un limite da poco. Una base strumentale mette un sacco di paletti al testo: stabilisce la lunghezza del verso, il numero di sillabe, gli accenti delle parole (che devono andare d’accordo con quelli musicali della linea melodica). Tutte queste cose però le vedremo più nello specifico tra qualche episodio, quando parleremo del lavoro dell’autore.
Nella scorsa puntata ho parlato della versione di San Martino incisa da Fiorello per puntualizzare come non sia sufficiente mettere una base a una poesia per farne una canzone credibile. Ovviamente il povero Carducci, mentre scriveva il suo testo, non poteva immaginare che centodieci anni dopo qualcuno avrebbe provato a trasformarlo in canzone, altrimenti avrebbe operato in maniera differente. E questo tentativo di Fiorello non è un caso isolato.
Nel 1992, Claudio Lolli ha inciso una sua versione musicale di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, poesia scritta da Cesare Pavese circa quarant’anni prima, nel 1951. Anche in questo caso l’autore del testo non poteva di certo immaginare che quella che lui aveva pensato come poesia potesse, anni dopo la sua morte, essere incisa sotto forma di canzone. E infatti anche in questo caso tante cose non tornano. Certo, l’esperimento di Lolli è sicuramente più consapevole e meno grottesco di quello di Fiorello, ma il risultato, per certi versi, non cambia. Ascoltiamola insieme.
Abbiamo a che fare con un’operazione culturale di un certo valore, un omaggio importante e ossequioso, ma non siamo sicuramente di fronte a una canzone pop. E sia chiaro, non perché mancano le trombette nel ritornello o perché non si parla di una storia d’amore estiva. Le motivazioni sono da cercare altrove. Solitamente in una canzone pop ci sono due/tre melodie: una per le strofe, una per il ritornello e una per lo “special” o il “bridge” (quelle parti di unione – o rottura, dipende dai casi – tra strofe e ritornello).
In questo brano è praticamente impossibile riconoscere una melodia unica. I primi versi hanno cinque sillabe, poi si passa a dieci, poi a otto, poi addirittura a due e così via per tutto il corso del pezzo. Ovvio che per il povero Lolli è una missione impossibile creare una melodia unica riconoscibile e facilmente riproducibile se il testo non ha una struttura regolare. E questo cosa comporta? Che fin dal primo ascolto – i fan di Lolli me lo concedano – questo brano risulta un po’ pesante (qualcuno potrebbe trovarlo addirittura noioso).
Ma qual è il legame tra l’irregolarità dei versi, la melodia, e la piacevolezza all’ascolto?
Pensiamo a quando impariamo a guidare. Quando non abbiamo esperienza, fare i primi cento metri è qualcosa di faticosissimo: dobbiamo stare attenti a non spegnere l’auto, gestire bene la frizione, concentrarci sui giri del motore per capire quando cambiare marcia, avere mille occhi per controllare ogni lato e impugnare bene il volante per non uscire fuori dalla carreggiata. Insomma, ogni parte di noi lavora al massimo per fare cento, semplicissimi, metri. Poi, dopo un po’ di lezioni, via via che prendiamo confidenza con il mezzo, guidare diventa molto più rilassante, per molti persino piacevole. Impariamo a gestire meglio i movimenti, ad assorbire i giri del motore in modo quasi inconscio e possiamo dedicare il nostro udito all’ascolto di una canzone o al dialogo con un compagno di viaggio. Insomma, guidare smette di essere un’operazione faticosa.
Quando noi ascoltiamo una canzone per la prima volta ci troviamo in una situazione simile a quella che viviamo quando impariamo a guidare. All’inizio la nostra attenzione è divisa su più fronti: cerchiamo di capire di cosa parla la canzone, magari ci sforziamo di riconoscere il cantante e poi, soprattutto, dobbiamo iniziare ad assorbire la melodia, che in questa fase è a noi sconosciuta. Il nostro è quindi ancora un ascolto impegnativo, concentrato nel prestare attenzione a troppe incognite. Solitamente dopo le prime strofe arriva un ritornello con una melodia diversa che spariglia ancora una volta le carte in tavola.
Dopo il ritornello tornano altre strofe in cui ritroviamo quella melodia che abbiamo sentito all’inizio e che questa volta, forse, ci sembrerà meno estranea. Ma è soltanto riascoltando la canzone due o tre volte che saremo in grado di farla nostra e fischiettarla (pensiamo a Sanremo: a voi non è mai capitato di giudicare male una canzone la prima serata e cambiare idea dopo pochi giorni?). A quel punto l’ascolto sarà cambiato: avremo modo di concentrarci meglio su alcuni aspetti che all’inizio non potevamo cogliere, magari l’originalità di qualche immagine o di un gioco di parole. Avremo imparato le parole, compreso meglio il testo che adesso, molto probabilmente, potremo canticchiare più o meno distrattamente mentre facciamo le pulizie o spingiamo il carrello della spesa al supermercato.

Tutto questo per dire che il nostro ascolto ha sempre bisogno di un appiglio: una melodia riconoscibile che ritorni in vari punti del brano e che sia facilmente riproducibile. Ma per avere questo, i versi devono avere un numero di sillabe regolari, altrimenti ogni verso avrà una melodia simile ma diversa da quello precedente. Serviranno molti più ascolti per fare nostra quella canzone. E servirà uno sforzo molto più grande che ci renderà noioso e meno piacevole l’ascolto. E soprattutto servirà la ferma volontà di andare avanti e non arrendersi al primo ascolto. Questo è ciò che succede con la canzone di Lolli/Pavese.
Sia chiaro: non mi voglio assolutamente permettere di dare un giudizio sull’operazione di Lolli, ma solamente puntualizzare il fatto che in questo caso siamo di fronte a un bell’omaggio, una bella operazione culturale, ma non a una canzone pop. Per tornare all’esempio della scuola guida è come se ci trovassimo a guidare un’automobile sportiva con il serbatoio quasi vuoto: certo, possiamo comunque raggiungere la nostra destinazione, ma con uno sforzo maggiore, senza goderci le prestazioni del motore, impiegandoci più tempo e senza concederci quelle piccole distrazioni (una chiacchierata con il compagno di viaggio, uno sguardo al paesaggio) che rendono il viaggio più piacevole e leggero.
Con questo esempio e con quello della puntata precedente relativo al brano di Fiorello/Carducci spero di aver chiarito quanto detto all’inizio: per fare un discorso serio intorno alla canzone pop è innanzitutto necessario riconoscerla come genere indipendente dagli altri. Un genere che, come stiamo iniziando a vedere, ha molte regole che lo definiscono. Non è detto che una bella poesia sia anche una bella canzone. Perché è vero che sentimento e ispirazione sono due ingredienti sempre utili, ma da soli non sono sufficienti. Serve una panoramica più ampia per comprendere a fondo gli ingranaggi che regolano i meccanismi tutt’altro che “leggeri” che fanno girare le canzoni.
